
Come Ulivi al Vento
Quando ero piccola rimanevo incantata guardando gli ulivi. Così grandi e maestosi, con quei solchi profondi scavati nel tronco, erano piegati dal vento ma bastava un’occhiata per intuirne la forza secolare.
“Come fanno ad essere così?” – chiedevo sempre con gli occhi spalancati e il dito puntato verso l’albero più grande.
“È proprio perché sanno piegarsi quando il vento soffia forte dal mare che riescono a sopravvivere, altrimenti si spezzerebbero…” – rispondeva la mamma.
Fin da bambini ci insegnano a non piegarci, che dobbiamo essere (e mostrarci) forti e tutti d’un pezzo, in caso contrario non potremmo reggere agli urti e sopportare le inevitabili tempeste della vita.
La natura e gli ulivi ci dicono invece qualcosa di diverso, mostrandoci come essere rigidi e opporre costante resistenza porti ad una sola conclusione: andare in pezzi.
E invece pretendiamo di essere come il diamante, inscalfibile anche ai colpi più duri, e indossiamo spesse armature che ci fanno sentire in qualche modo protetti.
Ma a quale prezzo?
L’armatura che vedo spesso nelle persone accomodate sulla poltrona di fronte a me è fatta di costrutti rigidi e stereotipati.
Sono quelle convinzioni su noi stessi e sul mondo intorno che teniamo care perché sono cresciute insieme a noi, anche se ci fanno soffrire – spesso inconsapevolmente – e ne percepiamo a tratti l’insostenibilità.
E’ un’armatura fatta di (pre)giudizi altrui che non ci appartengono veramente ma che leghiamo insieme come mattoncini facendocene scudo: “non penserai sul serio di….” o “così non va bene, questo non puoi farlo!”. Non sono parole nostre ma proiezioni di quello che altri pensano sia giusto fare, dire e pensare.
È un’armatura fatta di credenze maturate su noi stessi e che nel tempo si sono stratificate, limitando e minando le nostre potenzialità e la consapevolezza di quello che siamo e desideriamo.
“Non ne sarò mai capace!” oppure “perché dovrebbe accadere proprio a me una cosa così bella?”.
Se guardiamo più da vicino, ci accorgiamo quindi che quest’armatura non protegge poi così bene dai pericoli del mondo esterno e – peggio ancora – ci blocca dallo stabilire relazioni significative e utili alla nostra crescita, lasciandoci solo un sottilissimo filo di luce per guardare fuori.
Permetterci di toccare i nostri fallimenti, riconoscere le emozioni più forti e faticose da tollerare, ammettere che a volte è troppo dura e che vorremmo mollare tutto e fuggire via, ci rende umani e capaci di accettare le nostre vulnerabilità.
Queste sappiamo spesso riconoscerle nell’altro e siamo anche subito pronti a farcene carico, ma quando si tratta di noi stessi siamo puntualmente il giudice più spietato.
Non abbiamo davvero bisogno di nessuna armatura.
Impariamo quindi ad essere flessibili e a connetterci di più con noi stessi, perché “Solo dando ascolto e diritto di esistere a tutto ciò che è in noi, anche agli aspetti più dolorosi e difficili, si allontana l’alienazione, la paura del vuoto e la follia”. (Verlato Anfossi, 2006)
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